Antropologia Pubblica, online il Vol 7 No 1 (2021): Legami di legge? Riproduzione, genere, affetti, sessualità tra norme e pratiche


Antropologia Pubblica: staffette, allunghi, rilanci 

Editoriale AP 7, 1 2021 (Mara Benadusi)

L’annata 2021 di Antropologia Pubblica si apre con alcune novità. La prima riguarda la direzione della rivista. Il lavoro in tandem che, dalla sua fondazione, ha caratterizzato AP – con due direttori (il Presidente uscente e il Presidente entrante della Società Italiana di Antropologia Applicata – SIAA) – sarà preludio di un rinnovamento. Come sapete, dal 2015 Bruno Riccio ha ricoperto il ruolo di co-direttore, prima assieme a Leonardo Piasere e poi dal 2019 in collaborazione con me. Nei prossimi mesi subentrerà al mio fianco nella direzione della rivista Marco Bassi, attuale Presidente della SIAA. Da parte della redazione e del comitato scientifico di AP, a Bruno va un sentito ringraziamento per il servizio prestato in questi anni, per gli stimoli che ha saputo offrire al gruppo, per l’incoraggiamento nel ripensare costantemente la partecipazione di noi antropologi alla vita professionale, politica e culturale del paese, negli spazi del lavoro, della cura, dell’intervento sociale. Il suo sguardo attento e al contempo aduso alla freschezza di pensiero e all’agilità della comunicazione senza dubbio ci mancherà, ma sappiamo che Bruno continuerà a seguirci dal Comitato scientifico della rivista e gliene siamo grati.

Lo spirito che anima il sistema di alternanza delle cariche in AP, e più in generale all’interno della SIAA, è d’altronde un valore fondamentale per tutti noi: non solo inibisce i personalismi accademici o di altro tipo, ma rende corale l’impegno negli organi associativi e mutualistico il percorso di crescita che facciamo passandoci, di volta in volta, il testimone. Allunghi, giri di boa, staffette antropologiche, di questo in fondo si tratta, esercizi utili a condividere la fatica che il lavoro volontario comporta. Così, nel corso del 2021 prepareremo anche la successione di Stefania Pontrandolfo nel ruolo di redattrice-capo al posto di Roberta Altin, che comunque rimarrà in redazione e, in qualità di membro del nuovo Consiglio direttivo della SIAA, continuerà a facilitare lo scambio tra rivista e associazione. Un grazie anche a Roberta per la costanza nel tenere le redini dei vari numeri, per la dedizione nel gestire le mille incombenze legate al lavoro editoriale, per l’approccio collaborativo che ha reso la sua presenza indispensabile e quanto mai gradita al resto del gruppo.

L’annata che ci lasciamo alle spalle non è stata facile. Siamo stati tutti, anche se in forme e gradi diversi, obbligati a rivedere le nostre priorità, sia quelle legate al lavoro, sia quelle della vita domestica; abbiamo dovuto ripensare il nostro ruolo nella società e molti di noi l’impegno in campo educativo, rimodulare le relazioni con gli altri e i nostri posizionamenti etnografici, con tutto il loro bagaglio di rischi, sfide, contraddizioni. È vero, la pandemia ha battuto il ritmo dei molti scossoni a cui siamo stati sottoposti e per certi versi ha influito sulle direzioni assunte dal cambiamento. I tempi della pandemia per innumerevoli ragioni non ci sono piaciuti, hanno prodotto disagio, paura, contrarietà, dissidi, allontanamenti (dal campo, dai colleghi e dalle colleghe, dai nostri studenti, dalla vita attiva). Ma gioco forza abbiamo tentato di reagire, abbiamo immaginato correttivi al distanziamento, ideato risposte collettive alla sospensione degli incontri in presenza e riempito il disorientamento con un attivismo associativo ed editoriale senza precedenti.

Penso, per fare un esempio, all’interessante dibattito che ha animato la nostra comunità antropologica in Italia riguardo alla DAD e alle forme del fare scuola ai tempi del Covid-19; ai numerosi seminari, convegni, articoli, blog, instant-book che hanno visto la luce nel corso del lockdown. Non è questo il luogo per richiamare i singoli contributi in modo sistematico, né per avanzare letture o prendere posizione. Ma sicuramente non siamo rimasti inerti. Avremo tempo per comprendere meglio e toccare veramente con mano, in maniera antropologicamente densa, quello che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo, le cause profonde e gli effetti nel lungo periodo del Covid-19 sulle nostre vite. Ciò non toglie che, in quei primi mesi di spaesamento, molti di noi abbiano sentito il bisogno di colmare i vuoti che si sono creati, le voragini di senso, i tempi di sospensione, l’attesa nel trovare risposte. Per questo, tra fasi di lockdown e allentamenti delle misure restrittive, la Società Italiana di Antropologia Applicata ha organizzato un’“antenna di prossimità” per i soci. In un setting virtuale aperto e informale, ci siamo periodicamente incontrati in piccoli gruppi per condividere le nostre riflessioni riguardo alla compressione delle sfere d’azione dell’antropologia e alle trasformazioni legate alla vita quotidiana, ma anche per prefigurare nuove forme di lavoro e di impegno nel sociale.

Più o meno nello stesso periodo, abbiamo avviato un ciclo di seminari online invitando antropologi e antropologhe con percorsi di ricerca coerenti con il tema del rischio pandemico: epidemia, emergenza, dispositivi di allerta, cultura della preparazione. Li abbiamo invitati a condividere i loro percorsi di ricerca e a individuare chiavi di lettura e possibili risposte, su scala locale e globale. Così, nel primo numero di Antropologia Pubblica del 2021, apriamo uno spazio per riverberare gli esiti di questo confronto, pubblicando la prima di una serie di interviste con gli ospiti dello Speakers’ Corner SIAA, Listen to the Pandemic. Nell’intervista, intitolata Preparedness or Resilience: How is the Pandemic Framed, Irene Falconieri dialoga con l’antropologa francese Sandrine Revet intorno agli effetti che la Sars-CoV-2 sta generando in un clima di diffusa incertezza. Il confronto mostra come teorie ed esperienze di ricerca maturate nell’ambito dell’antropologia dei disastri possano contribuire a una comprensione più articolata di quanto stiamo vivendo, dei suoi effetti disomogenei nei diversi contesti sociali e dei modi in cui il contagio da Covid-19 viene inquadrato a livello internazionale.

Inoltre, ai nostri lettori farà piacere sapere che continua in questo numero il Forum “Riapplicare l’antropologia applicata in Italia”, lanciato su AP nel 2020 intorno al carteggio intercorso tra Tullio Seppilli e Antonino Coloajanni in occasione della Fondazione della SIAA, nel 2013. Dopo gli interventi di Leonardo Piasere, Giovanni Pizza, Alessandro Simonicca e Ferdinando Mirizzi che hanno animato il dibattito intorno al tema dell’applicazione in antropologia, o del suo “uso sociale” per riprendere l’espressione cara all’antropologo perugino, apparsi nel numero precedente, pubblichiamo una seconda tornata di interventi. Bruno Riccio, Sabrina Tosi Cambini, Alessandra Broccolini e Ivan Severi ripensano le possibili posture di un’antropologia impegnata nell’intervento sociale, nei territori, nei contesti di lavoro, nella vita pubblica. Il nuovo giro di commenti aiuta anche a riflettere sui cambiamenti che potrebbero rendere il contesto della formazione antropologica in ambito universitario ed extra-universitario in Italia più attrezzato a rispondere alle sfide e contraddizioni (professionali e non solo accademiche) del nuovo millennio.

Come è d’uopo nella rivista, l’ossatura del numero si regge comunque su una sezione monografica, che questa volta dedichiamo al tema della riproduzione, tra genere, affetti e sessualità. Si tratta di un affondo etnografico capace di aprire snodi teorico-pratici per nulla irrilevanti, sia in ambito antropologico sia in ambito giuridico: la tutela volontaria dei minori stranieri non accompagnati, di cui tratta Giulia Consoli seguendo il lavoro di un gruppo di “tutori volontari” nel nord Italia, al tempo stesso problematizzando le rappresentazioni istituzionali intorno alla “genitorialità sociale”; gli spazi e i tempi della cura delle donne straniere, scandagliati da Valeria Bochi analizzando le dinamiche di potere/sottomissione legate alla costruzione di soggettività femminili “in transito”, ma anche l’interazione tra queste e il personale medico e assistenziale; quindi i diritti e le pratiche di maternità catturati in un denso resoconto etnografico di Veronica Buffon, Ilaria Boiano e Cristina Laura, che descrivono le difficili traiettorie di trasferimento tra Pantelleria e Trapani, ma soprattutto le risposte collettive messe in campo dalle donne in attesa per contrastare la sospensione dei servizi; e ancora l’esperienza dei consultori per adolescenti nel Comune di Roma e i complessi legami affettivi che si dipanano al loro interno, trattati nell’articolo di Alice Manfroni, impegnata a cogliere l’interconnessione tra sessualità, genere ed età; infine un approfondimento, tra ricerca e azione, dove l’orizzonte di una possibile depsichiatrizzazione apre spazi di riflessione inediti intorno alla riforma della Legge 164/1982 sui servizi rivolti alle persone transgender, di cui parla Carolina Vesce nel suo contributo. Carolina tra l’altro – assieme a Chiara Quagliariello – è anche la curatrice della sezione monografica.

Nello spirito della rivista, continuiamo anche con research article e report di ricerca. L’articolo di Valentina Mutti e Anna Ferro indaga la natura delle relazioni transnazionali dei giovani burkinabé in Italia, concentrandosi su rimesse, investimenti e progetti per il futuro. Il rapporto di Roberta Altin è dedicato al Museo dell’Arte Fabbrile e della Coltelleria di Maniago, inserito nella rete degli ecomusei delle Dolomiti Occidentali. Quello di Giulia Nistri e Filippo Lenzi Grillini ai servizi di riduzione del danno e al rapporto con i “consumatori” all’interno dei contesti di loisir. Nella rubrica “Interventi” troverete invece una riflessione di Marta Villa sui fatti di cronaca che, a fine 2020, hanno riguardato l’imprenditrice Agitu Ideo Gudeta, uccisa in Trentino da un migrante africano che in precedenza aveva lavorato nel suo caseificio. Torniamo inoltre sul tema Migrantour, che ha animato il dibattito in parecchi numeri della rivista, pubblicando un contributo di Sara Iandolo che analizza criticamente i percorsi di accompagnamento interculturale di Porta Palazzo, a Torino, e il loro ruolo nella costruzione di valore simbolico ed economico attorno ai luoghi della multiculturalità nello spazio urbano. Da ultimo, la rivista chiude con due recensioni: Laura Menin commenta il libro di Fabio Vicini Reading Islam: Life and Politics of Brotherhood in Modern Turkey (Brill, Leiden e Boston 2020) e Nadia Breda la monografia di Roberta Raffaetà, Antropologia dei microbi. Come la metagenomica sta riconfigurando l’umano e la salute (CISU, Roma 2020).

Un riferimento finale spetta naturalmente al testo che apre il numero, Synchronisation and de-synchronisation at the time of the smartphone, che vien fuori dalla bellissima keynote lecture tenuta da Thomas Eriksen nel corso dell’ultimo convegno della Società Italiana di Antropologia Applicata. Non c’è bisogno di dire che l’irrefrenabile lavoro a cui Eriksen ci ha abituati negli ultimi anni, dedicato all’approfondimento dei paesaggi accelerati e ormai “fuori controllo” della nostra contemporaneità, consegna alle pagine di AP un vero e proprio gioiello. Chi ha partecipato alla keynote a dicembre scorso, ricorderà la straordinaria abilità comunicativa e la perspicacia argomentativa con cui il nostro ospite ha allora ricapitolato alcuni dei modi in cui la temporalità è stata influenzata dalla penetrazione dello smartphone nella vita quotidiana. La ricchezza delle esemplificazioni etnografiche, l’agilità e pregnanza dei riferimenti teorici e le conclusioni a cui Eriksen approda in questo scritto non deludono le aspettative. I paradossi della simultanea sincronizzazione e desincronizzazione vengono infatti al pettine, uno dopo l’altro, e la decantata “flessibilità temporale” (che siamo stati incoraggiati a rincorrere con l’irruzione del Covid-19) mostra non poche contraddizioni. Se infatti di flessibilità si deve parlare, secondo Eriksen questa – più che incidere sulla dimensione della temporalità, che anzi si è andata via via ridimensionando dopo l’introduzione dell’internet mobile –, è aumentata nelle sue manifestazioni fisico-spaziali. Le poliritmie della vita quotidiana in realtà possono essere sincronizzate solo per piccoli frammenti, in quanto tutti – smartphone alla mano – rimaniamo comunque “fuori sincrono”, immersi non solo nell’immediatezza e compressione temporale del mobile, ma anche nei ritmi spesso più lenti con cui conduciamo le nostre vite analogiche.

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