ME DIKHAV ANDE KE EAKÀ

Fabio Finco nasce a Roma, è studente del corso di laurea in Storia, Antropologia, Religioni (curriculum Teorie e Pratiche dell’Antropologia) dell’Università di Roma “La Sapienza”.
Il medium fotografico come pratica etnografica ed amplificatore narrativo irrompe nel 2015 durante un progetto personale sulle pratiche di solidarietà messe in atto dal gruppo giovani della Chiesa greco-cattolica Ucraina di Roma, con particolare attenzione alla festività di San Nicola.
Da Settembre 2015 partecipa ad un’esperienza di ricerca presso il quartiere romano Magliana e da Marzo 2016 inizia a seguire la comunità Rom ivi residente, con soggiorni al campo e svolgendo due viaggi nella regione dell’Oltenia (Romania) con una famiglia di Rom Caramizari.

Il campo rom è uno spazio ben delineato nei confini fisici e psicologici della città e del cittadino così come sono ben definiti i suoi abitanti, ma nonostante questa riconoscibilità rimane un luogo estraneo, abitato da persone estranee.
Entrare nel campo significa condividere la vita, le gioie, i dolori; subire infatuazioni, suggestioni, sensi di colpa, svelando gradualmente pregiudizi e convinzioni sottili sopra la figura chimerica dello “zingaro” annidati nel nostro habitus.
È il 31 dicembre 2016 e da qualche giorno ho cominciato il mio secondo soggiorno al campo rom di Via Candoni; l’aria porta con sé segnali di attività febbrile per accogliere nel migliore dei modi l’anno che verrà; avverto un persistente profumo di pesce, è la prima volta che sento preparare tale alimento e alla sera quando ci si appresta al canonico giro tra i parenti vedo che tutti hanno sulla tavola un bel pesce. Incuriosito chiedo il perché, mi viene detto che “porta fortuna” e subito dopo con un movimento energico del braccio e della mano si aggiunge “va sempre avanti, mai indietro; va dritto!”. Ci ritroviamo nel nostro container ad affondare i denti nella “fortuna”.
Il pesce è tornato sulla tavola durante un banchetto funebre. Me dikhav ande ke eakà (io lo vedo nei tuoi occhi) mi venne detto in quei giorni dove si mescolarono un immenso dolore ed un’irrinunciabile, opprimente quasi, voglia di vivere nonostante le difficoltà di una vita ai margini.
L’“essere come un pesce” è una qualità che viene riconosciuta non tanto attraverso le opere ma dallo specchiarsi negli occhi dell’altro, l’Altro come noi, noi come l’Altro.
È in tale contesto che il medium fotografico può offrire la possibilità di decifrare i connotati di un dialogo ancora difficile da digerire, scrivere e comunicare, di un lavoro imperfetto e provvisorio che si nutre di sostanze irrazionali e difficili da fissare nella gabbia della scrittura.

Il lavoro qui presentato è una selezione di un più ampio progetto fotografico che è stato presentato durante il V Convegno Nazionale SIAA svoltosi a Catania tra il 14 e il 17 dicembre 2017, nell’ambito del workshop “Phototelling. Ripensare l’etnografia attraverso i linguaggi visuali”, condotto da Marina Berardi e Chiara Scardozzi.