NELLA CITTA’ DELLE MOSCHE

Laureato in due diversi campi delle scienze sociali, Psicologia e Antropologia, dal 2010 ha lavorato come antropologo visuale presso l'Istituto Irfoss Aps di Padova, in Italia. Nel 2015 è entrato a far parte dell'agenzia internazionale Prospekt Photographers (Milano) e nel 2022 è entrato a far parte di INSTITUTE Photo Agency (Los Angeles). Attualmente lavora come docente di Tanatologia Culturale presso il Master “Death Studies and the End of Life” e come docente di Antropologia Visuale presso il corso di perfezionamento “Creative Arts Therapies” dell’Università degli Studi di Padova. E’ Art Director di IMP Festival Internazionale di Fotogiornalismo. Combinando fotografia e audiovisivo come approcci di ricerca privilegiati, ha lavorato in Africa, Sud e Nord America, Asia ed Europa. Dal 2006 si è concentrato sui tabù riguardanti la morte, soprattutto in Madagascar. Tra gli altri importanti riconoscimenti, nel 2015 è stato nominato “Miglior Fotografo dell'Anno – Categoria Sport Professional” ai Sony World Photography Awards. Le sue foto sono state esposte a Londra, Toronto, Berlino, Parigi, Roma, Bucarest, Bologna, Pechino, Lishui e sono state pubblicate su riviste di tutto il mondo. Nella sua visione, la fotografia documentaria è molto più di un semplice strumento di raccolta dati: è la base per un linguaggio universale, un ponte tra persone e luoghi che permette di superare i confini invisibili tra le culture.

La città delle Mosche

La ricerca è iniziata ad Andralanitra, una delle più grandi discariche del continente africano, operativa dagli anni ’60, nella primissima periferia della capitale Antananarivo. La discarica, che ora copre oltre 45 acri ed è ancora in espansione, riceve ogni giorno tra le 350 e le 550 tonnellate di nuovi rifiuti. Il fuoco arde tutto l’anno nel cuore delle colline di spazzatura, che possono raggiungere i 15 metri di altezza, e il paesaggio innaturale è costantemente intriso di una nebbia tossica. Il Governo del Madagascar ha spesso dimostrato una scarsa sensibilità ai temi ambientali, e nel Paese non si pratica nessuna forma di differenziazione dei rifiuti o riciclaggio. Questa mancanza istituzionale ha però rappresentato un’opportunità per molti disperati, inizialmente arrivati nella capitale in cerca di fortuna: fino al 2019 nella discarica vivevano e lavoravano circa 3000 persone, sopravvivendo grazie alla raccolta di plastica (rivenduta a 0,05 $/Kg) e metalli (0,50 $/Kg). Il centro della discarica è disseminato di piccole tombe, che segnano i corpi di feti e neonati indesiderati. Quelli che sono riusciti a sopravvivere, vivono permanentemente e lavorano nella discarica insieme agli adulti, assediati dai topi, come una comunità di bambini orfani. I residenti della capitale si riferiscono comunemente a questo luogo come “Ralalitra”: la Città delle Mosche. Dalla nostra prima visita abbiamo trascorso diversi giorni in quel luogo, cercando di capire la natura intima del fenomeno dal punto di vista di chi quel luogo lo vive abitualmente. In questo lasso di tempo, nonostante la calorosa accoglienza degli abitanti della discarica, siamo stati gravemente minacciati dalla società privata incaricata dello smaltimento dei rifiuti nella capitale per conto del governo, che ha avuto la convenienza politica ed economica a mantenere segreto quanto accade all’interno della discarica e a negare l’esistenza stessa di un “popolo della mosche”. Dalle prime interviste con gli abitanti della discarica è subito emerso che le pratiche di non sostenibilità del governo non celavano “solo” un disastro ambientale e l’inasprimento delle disuguaglianze sociali portato alle sue più estreme conseguenze: la discarica era anche il più grande focolaio oggi esistente al mondo di peste bubbonica e polmonare (la variante più contagiosa).

La peste in Madagascar

Considerata dagli occidentali come un mero capitolo passato consegnato alla Storia, la peste è un’antica malattia trasmessa dalle pulci con un tasso di mortalità del 50-60% se non trattata. Al giorno d’oggi, la peste rappresenta ancora una preoccupazione per la salute pubblica nei rari Paesi colpiti in Africa, Asia e Americhe. Nonostante l’implementazione della sorveglianza e delle misure di prevenzione, secondo l’OMS negli ultimi 3 anni il numero di casi in Madagascar è aumentato costantemente, rendendolo il paese più gravemente colpito dalla peste al mondo. Dal 1983 sono stati registrati focolai regolari ogni anno, e ormai la peste viene considerata endemica. La peste è classificata come neglected tropical disease, il cui termine si riferisce a un gruppo di malattie infettive che colpiscono più di un miliardo di persone nel mondo che vivono in povertà, senza servizi igienici adeguati e a stretto contatto con vettori infettivi. La spiegazione della persistenza della peste in Madagascar va ricercata oltre ai fattori biologici: le cause socio-economiche sembrano rappresentare la chiave di lettura determinante. La peste è percepita nel Paese come la “malattia dei poveri” per eccellenza, che colpisce solo coloro che vivono nelle aree più povere, insalubri e periferiche. Questo è legato al radicato stigma sociale associato alla malattia, ai pazienti e alle loro famiglie. I pazienti rivelano che la vergogna provata è stata la prima causa nei gravi ritardi nell’inizio di un trattamento efficace: le persone nascondono o negano la malattia, fuggono dalle aree di quarantena e arrivano a riesumare illegalmente i corpi dalla fosse comuni per non condannare i propri cari alla vergogna, neppure nella morte. Proprio il fattore dello stigma sociale ci ha fatto sospettare che i circa 3.000 casi l’anno ufficiali dichiarati dal Ministero non fossero che la punta dell’iceberg, convincendoci a procedere al tracciamento dei casi di peste non registrati dai medici, tenuti nascosti dai pazienti, o che colpivano gli invisibili: persone come gli abitanti della discarica, prive di documenti e la cui stessa esistenza non è mai stata ufficialmente registrata.

Risoluzione

La ricerca si è trasformata sul campo in Ricerca – azione, essendo emerso chiaramente da tutti gli attori coinvolti una volontà condivisa di risolvere o migliorare la proprio situazione attuale. In particolare quasi tutti gli abitanti della discarica erano ben consapevoli che il proprio lavoro di differenziazione aveva una rilevanza sociale, sostituendo illecitamente qualcosa che avrebbe dovuto essere istituzionalizzata e finanziata dal governo, senza sfruttamenti – anche a danno dei bambini – di chi gestiva il sito. Se il governo si era dimostrato in passato cieco, o forse assuefatto, ai drammi ambientali e sociali, ha invece mostrato una certa sensibilità verso la questione medica, complice forse la presenza documentata di un focolaio epidemico proprio nella capitale e proprio a ridosso delle elezioni comunali. E’ stata proprio questa preoccupazione a produrre in breve tempo un cambiamento sociale positivo, contribuendo a migliorare la drammatica situazione della discarica e dei suoi abitanti: il sito è stato finalmente assorbito dall’amministrazione pubblica, il titolare della società privata che l’aveva in gestione è stato arrestato e la maggiorparte dei lavoratori abusivi è stata formalizzata e assunta dal Comune (almeno tra gli adulti). L’esperienza di ricerca ci ha inaspettatamente dimostrato come sia impossibile definire una singola pratica come sostenibile (o insostenibile), piuttosto la sostenibilità deve sempre prendere in considerazione un sistema complesso di pratiche, ognuna con le diverse attribuzioni di valori e significato dei diversi attori coinvolti. A volte, la chiave per un cambiamento radicale, è proprio da ricercarsi nei diversi livelli, a volte anche distanti dal fenomeno osservato, di questa complessità.